13/03/12

Rétro: una definizione provvisoria del concetto



L’intersezione tra cultura di massa e memoria personale è l’epicentro del rétro. E dunque proviamo a formulare una definizione provvisoria del concetto, per distinguerlo da altre modalità di rapporto con il passato:

(1) Oggetto del rétro è il passato relativamente recente, quello che possiamo ricordarci in prima persona.
(2) Il rétro coinvolge un elemento di ricostruzione precisa: l’immediata disponibilità della documentazione d’archivio (fotografie, video, registrazioni musicali, internet) consente di riprodurre esattamente il vecchio stile, si tratti di un genere musicale, grafico o di moda. Di conseguenza, lo spazio per il fraintendimento creativo del passato – le distorsioni e mutazioni tipiche di culti dell’antichità quali l’architettura neogotica, per esempio – si riduce.
(3) Il rétro coinvolge i prodotti della cultura popolare. Questo lo differenzia da precedenti forme di revival che, come sottolineato dallo storico Raphael Samuel, si fondavano sulla cultura alta e nascevano dai gradini superiori della società, gli esteti e gli antiquari aristocratici dediti al collezionismo più raffinato ed esclusivo. Il terreno di caccia rétro non è la casa d’aste o l’antiquario, ma il mercatino delle pulci, la vendita di articoli usati per beneficenza, il rigattiere.
(4) Un’ultima caratteristica della sensibilità rétro è la tendenza a non idealizzare né sentimentalizzare il passato, ma a cercarvi una fonte di divertimento e fascinazione. Tutt’altro che erudito e puristico, è un approccio ironico ed eclettico. Per citare Samuel, «il retrochic fa del passato un balocco», una giocosità legata al fatto che in realtà il rétro è più concentrato sul presente che sul passato che mostra di venerare e rinnovare. Il passato è sfruttato come archivio di materiali dai quali estrarre un capitale subculturale (la hipness, in altre parole) tramite il riciclaggio e la ricombinazione: il bricolage del bric-à-brac musicale.

Quali sono le origini della parola «rétro»? Secondo Elizabeth Guffey, storica del design, il termine entrò nel lessico comune nei primi anni sessanta sull’onda dell’era spaziale. I retrorazzi esercitavano una spinta inversa, rallentando la propulsione delle astronavi. L’inquadramento del «rétro» nell’era dello sputnik e della corsa allo spazio si presta a un’analogia seducente: il rétro come corrispettivo culturale della «spinta inversa», dove la nostalgia e il revivalismo anni settanta erano una reazione alla vigorosa propulsione verso lo «spazio cosmico» dei sessanta.
Per quanto attraente sia l’ipotesi, è più probabile che «rétro» fosse entrato in uso in quanto prefisso separato da «retrospezione», «retrogrado», «retroguardia» e simili. I termini che cominciano con «retro» tendono ad avere una connotazione negativa, mentre «pro» rimanda a parole come «progresso». In quanto tale, «rétro» è quasi una parolaccia: in pochi amano esservi associati. L’esempio più bizzarro è la tragica storia di Donald Cameron, gestore di un pub di Birmingham, che si suicidò nel 1998 quando la Bass Brewery, proprietaria del locale, decise di trasformarlo in un pub rétro chiamato Flares. Durante l’inchiesta, l’ex moglie Carol spiegò che l’umiliante prospettiva di dover «indossare una tenuta anni settanta con tanto di parrucca» aveva gettato Cameron nella disperazione. «Era convinto di non poter più risolvere i problemi al pub. La gente avrebbe riso di lui perché era ridicolo.» Qualche giorno dopo essere stato ripreso dai capi della Bass perché si ostinava a presentarsi al lavoro con un impeccabile completo giacca e cravatta anni novanta, il trentanovenne padre di due figli si asfissiò nell’auto.

Simon Reynolds, Retromania, pp. xxix-xxxi

28/02/12

Retromania e gli Anni Zero





Un articolo molto interessante che parte dalla lettura del libro Retromania di Simon Reynolds per riflettere a 360 gradi sulla musica degli anni Zero. Eccone una piccola citazione:

Con quello che dice Reynolds concordo in parte, perché all’inizio degli anni Zero almeno uno stimolo di rinnovamento c’era stato. Il culmine fu nel 2003, quando uscirono diversi album di qualità che poi hanno segnato la musica indipendente e alternativa negli anni a venire. Ma il loro impatto si è limitato a questo, non trovando la forza di creare un trend mainstream. Tra le cose uscite quell’anno i primi nomi che mi vengono in mente sono De-loused in the Comatorium dei Mars Volta, Effloresce degli Oceansize, The Vertigo of Bliss dei Biffy Clyro, l’omonimo esordio dei The Fall of Troy, In Keeping Secrets of Silent Earth: 3 dei Coheed & Cambria, Did You Know People Can Fly? dei Kaddisfly, Sleep and Release degli Aereogramme e Choirs of the Eye dei Kayo Dot. Poi le uscite di qualità si sono via via diradate, hanno preso il sopravvento i sopravvalutati Muse e Coldplay, lo pseudo avant-rock dei Radiohead, il “nuovo corso” dei Porcupine Tree ed è andato tutto in vacca. Dalla metà del decennio in poi un effettivo appiattimento c’è stato. Ed è qui che concordo con Reynolds. Gli ultimi 2-3 anni poi, con uscite sempre più inconsistenti, sono stati drammatici. Tanto che sono scivolati via senza portarsi dietro nessun capolavoro, o al limite qualcosa su cui poter riporre un’indicazione per il futuro della musica. E l’inizio di questi anni ‘10 non accenna a nessun sussulto.

27/01/12

Direzione senza direzione



In tono non necessariamente allarmistico o polemico, di recente Paul Morley ha parlato della «direzione senza direzione» imboccata dalla musica moderna. Applicato alla cultura, il termine «direzione» suggerisce l’esistenza di una traiettoria lineare e progressiva.
Musicalmente parlando, è un punto di vista sempre meno difendibile. Oggigiorno, il movimento nella cultura somiglia più alla ghiera dell’iPod. Nel migliore dei casi, si può essere «progressivi» nel senso di «in anticipo sulla moda»: il cambiamento introduce una differenza che rompe con il passato immediato, ma non costituisce un progresso in quanto tale.
Poiché la storia della musica ci viene offerta come un banchetto atemporale di suoni di ogni epoca accessibili al pari della musica attuale, il tasso di passato nel presente è aumentato drasticamente.
Questa spazializzazione del tempo, però, annulla la profondità temporale; il contesto o significato originario nella musica diventa irrilevante e difficile da recuperare. La musica si fa materiale da usare a piacimento in quanto ascoltatori o artisti. Perdendo la distanza, il passato perde inesorabilmente parte del mistero e della magia.
In queste circostanze, il revivalismo diventa completamente diverso da ciò che era per movimenti di fan come il northern soul e il garage-punk. Un tempo il revivalismo scaturiva da un connubio di angoscia e rispetto: i discepoli erano davvero convinti che la musica del passato fosse migliore, e volevano tornare indietro nel tempo. Ma era anche una reazione al presente, un netto rifiuto di specifici aspetti del mondo moderno. Che i revival musicali dicano più del presente che del passato è ormai lapalissiano. Il fatto è che i revival di oggi dicono poco non solo del passato, ma anche del presente.
È questo a stupire nella musica degli ultimi dieci anni: la mancanza di affetto, e più ancora di nostalgia, con cui tanti artisti sembrano rivisitare i vecchi stili.
Mentre il passato non è più «perduto» grazie all’accesso totale della digicultura, il futuro (e con esso il futurismo e la futuristicità) non ha più la carica di un tempo. La mia inchiesta del tutto ascientifica – sondare le opinioni di mio figlio undicenne e della babysitter ventenne di mia figlia – conferma l’impressione di William Gibson sulla nuova generazione: il Futuro con la f maiuscola è un argomento
al quale sono totalmente disinteressati e a cui non pensano quasi mai. La voglia di evadere dal qui e ora e dall’insipida quotidianità di periferia non è meno forte, ma viene soddisfatta con la fantasia (lo spaventoso successo di romanzi e film a tema magico, vampiresco, stregonesco e soprannaturale) e la tecnologia digitale. Cosa gliene frega a mio figlio di come sarà il mondo nel 2028 quando oggi, anche se ci siamo appena trasferiti in California, può frequentare gli amici di New York nel cyberspazio?

Simon Reynolds, Retromania, pp. 427-428

16/01/12

Sampling, hauntology e mash-up


Il sampling è uno strano animale, ma ancora più strana è la rapidità con la quale ci abbiamo fatto il callo. E non parlo solo del fatto che, pochi anni dopo la diffusione del fenomeno a metà degli ottanta, era difficile trovare un musicista eticamente contrario al campionamento della propria musica. A essere davvero incredibile è il modo in cui abbiamo accettato come parte integrante della nostra vita d’ascolto – e accettato come – i dischi composti di frammenti di altri dischi: segmenti di performance isolati dalla loro collocazione spazio- temporale originale.
La stranezza del sampling è venuta meno dopo tutti questi anni, ma nel 2005 mi colpì a livello viscerale – e non succedeva da un’eternità – quando ascoltai Caermaen di Belbury Poly, dall’album «The Willows». È evidente dall’enunciazione pittoresca e dalla tessitura deteriorata del sample – come carta ingiallita e sgualcita – che il malinconico cantante folk inglese era stato registrato molti, molti decenni prima. La voce nebulosa e misteriosa invita l’ascoltatore ad avvicinarsi, ma il significato continua a sfuggire: per quanto aguzzi le orecchie, è praticamente impossibile decifrare una sola parola. L’arrangiamento elettronico-medievale nel quale è incorniciata basta a rendere spettrale Caermaen, ma la storia dietro al brano fa davvero accapponare la pelle. Jim Jupp (il vero nome di Belbury Poly) aveva scoperto la melodia vocale – Joseph Taylor che canta Bold William Taylor – su un cd di musica tradizionale inglese. La versione era stata incisa nel 1908 su un cilindro fonografico dal collezionista Percy Grainger. Campionando l’intero brano, Jupp aveva «alterato la velocità e l’altezza per poi ricostruirlo in modo da creare una melodia diversa con parole incomprensibili». Insomma, aveva fatto cantare una canzone nuova a un uomo morto. Un artista più superstizioso avrebbe potuto esitare prima di prendersi una simile libertà. Caermaen e la sua storia furono come un vivido flashback sul disorientamento provocato dai primi dischi hip hop interamente costruiti sul sampling, tracce del 1986-87 di produttori come Herby Azor e Marly Marl. Ispirato da «Hot, Cool & Vicious», l’album delle Salt-N-Pepa prodotto da Azor, all’epoca scrissi un articolo sull’attrito sensuale ma soprannaturale di quei groove, cuciti insieme a partire da porzioni smembrate di pezzi funk e soul riportati in vita stile Frankenstein. Soprannaturale per via della «giustapposizione spettrale» delle molteplici atmosfere di studio ed epoche. L’etichetta di Belbury Poly, guarda caso, si chiama Ghost Box.

Simon Reynolds, Retromania, pp. 323-324 


08/01/12

Retromania su Ondarock



Dopo aver trascorso un paio di decenni a scrivere formidabili e lungimiranti articoli, Simon Reynolds si è imposto all'attenzione mondiale grazie alla brillante idea di raccoglierli in libri che si sono trasformati in imperdibili cult, aggiudicandosi il ruolo di più accreditato successore di Lester Bangs nel gotha dei critici musicali.
In "Energy Flash", "Post Punk" e "Hip Hop Rock" ha tracciato analisi e riflessioni allargate alle evoluzioni contemporanee della società, della moda, del costume, della politica, delle letteratura e del cinema.
Oggi un suo nuovo libro è atteso tanto quanto il nuovo album di una delle band che pone sotto la lente d'ingrandimento, una star avente lo stesso pregio dei personaggi raccontati o intervistati nei propri elaborati.
"Retromania" è il suo personale viaggio all'interno dell'ossessione per il passato che attanaglia ogni generazione, ma soprattutto la nostra epoca.

Tutto parte dal "mal d'archivio", dalla tendenza a "musealizzare", quel delirio iper-documentale innescato dalla tecnologia digitale, generatrice di una vera e propria epidemia di ricordi.
La presenza del passato nella nostra vita è aumentata in modo insidioso: da un'economia culturale fondata sulla penuria e la dilazione, nel giro di pochi anni siamo stati catapultati in una realtà iper affollata, nella quale l'eccesso di stimoli reclama attenzione e tempo.

La recensione continua su ONDAROCK

13/12/11

Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?



Un giorno la realtà mi ha colpito come un pugno in faccia: avevo accumulato un immenso archivio personale di prodotti audio.
Certo, potevo attribuirlo all’incessante fiume di dischi omaggio che ricevo per posta, ma la verità era che avevo imboccato questa strada ben prima di diventare un giornalista musicale. Nella Oxford di metà anni ottanta, da ex studente che viveva del sussidio di disoccupazione, registravo su cassetta gli lp delle biblioteche pubbliche, «giusto in caso»; poi, quando cominciai a guadagnarmi da vivere come freelance, presi a comprare ogni disco che mi incuriosiva.
Confesso, non senza vergogna, che alcuni sono ancora avvolti nella pellicola di plastica. (Ma non dimentichiamo che nel xx secolo Walter Benjamin – il grande filosofo del collezionismo, del curiosare nei negozi e di quello che oggi chiameremmo vintage shopping – sosteneva che «la non lettura dei libri» fosse un tratto distintivo del vero bibliomane, citando il caso di Anatole France, il quale ammetteva candidamente di aver letto a malapena un decimo dei volumi della sua biblioteca.) Quando il vinile riempie gli scaffali e i ripostigli di tutta la casa, quando hai altri dischi chiusi negli armadietti metallici in cantina, quando quindici anni dopo esserti trasferito negli Stati Uniti hai ancora un box a Londra pieno di cd, cassette, lp e singoli... be’, è ora di affrontare la realtà. Sei un collezionista, per giunta cronico, e hai superato da un pezzo la fase in cui non era che un semplice passatempo gestibile e salutare. Un accumulo così gigantesco di musica registrata esercita inevitabilmente una certa pressione subliminale. Inizi a chiederti non già se riuscirai a fare nuove scoperte, ma se ti rimangono abbastanza giorni da vivere per poter riascoltare almeno una volta le cose che ti piacciono.
L’equivalente musical-ossessivo della crisi di mezza età è quando tutte quelle potenziali meraviglie impilate sulle mensole smettono di darti piacere e cominciano a somigliare a messaggeri di morte.
Ironia crudele, perché l’interpretazione psicanalitica standard del collezionismo compulsivo lo vede come un tentativo di scongiurare la morte, o quantomeno di rimuovere quelle ansie astratte e inconsolabili spesso radicate nei sentimenti di smarrimento infantile. Avere tanta roba, secondo la logica inconscia, ci protegge dalla perdita, ma questa stessa roba un giorno finirà per ricordarci l’ineluttabilità della perdita. «L’idea di morire mi terrorizza» dice Gareth Goddard, collezionista e fondatore dell’etichetta di ristampe Cherrystones. «Perché penso: “Cosa diavolo ne sarà della mia collezione?”».
Lo confesso, il pensiero della fine che faranno i miei dischi quando non ci sarò più a volte mi balugina nella mente. Non che mia moglie non avrà questioni molto più urgenti da affrontare, ma quante
volte le ho ripetuto che non dovrà portarli al primo centro dell’Esercito della Salvezza. Sono consapevole del loro valore, ma non è solo questo: è il timore che i miei preziosi dischi vengano maltrattati. A livello profondo, è come se Gareth Goddard e io fossimo già in lutto per la nostra scomparsa. I dischi sono noi, rappresentano una porzione rilevante di ciò che abbiamo fatto del nostro tempo su questo pianeta, le ore d’impegno e amore di cui nessuno sa.

Retromania, pag. 114-115

05/12/11

Thurston Moore in Italia


Il leader dei Sonic Youth, Thurston Moore, sarà in Italia per la presentazione del suo ultimo disco: Demolished Thoughts, un lavoro davvero molto valido. Il cantante sarà anche Thurston Moore in concerto a Milano, 9 dicembre Eventi a Milano
a Milano il 9 dicembre alle 21 al Teatro Dal Verme. E troverete anche i nostri libri.



Qui i Sonic Youth presentati da Simon Reynolds in Post-punk:

Agli esordi, i Sonic Youth mostravano segni di anglofilia e risentivano dell’influenza dei PiL (Richard Edson, il primo batterista, suonava anche con i Konk, aspiranti «Pigbag» della 99 Records). Con “Confusion Is Sex” del 1983, tuttavia, la formazione sposò la causa del rumore fragoroso contro la sterilità del funk meccanico. Il chitarrista Thurston Moore aveva già lanciato il suo grido di battaglia nel giugno 1981, organizzando un Noise Fest alle White Columns, una galleria d’arte a SoHo. Suddiviso in nove serate, il programma comprendeva i Sonic Youth nella loro prima versione, gli Avoidance Behavior di Lee Ranaldo (futuro chitarrista dei SY), Glenn Branca e gli Ut, longevo gruppo No Wave. «Fu un evento spartiacque, perché ebbe luogo in un momento in cui la No Wave era finita e non ci conoscevamo l’un l’altro» ricordava Moore nel 1985, intervistato da Forced Exposure. Non tutti, però, reagirono con tanto entusiasmo. Secondo Luc Sante, «buona parte del Noise Fest era arida, ideologica e priva di fascino. Si identificava pesantemente con un certo filone legato a Rhys Chatham e Glenn Branca, il giro del Kitchen: molto pretenzioso, accademico e per niente funky». Ciò nonostante, il ritorno della No Wave con Sonic Youth e Swans rappresentava il futuro immediato di New York. A metà degli anni ottanta, i gruppi più raffinati della città abbandonarono le influenze black e la prospettiva disco per attingere a un canone quasi esclusivamente bianco di rumoristi d’avanguardia.
 

Potrebbe interessarti: http://www.milanotoday.it/eventi/concerti/thurston-moore-milano.9-dicembre-2011
Seguici su Facebook: http://www.facebook.com/MilanoToday

30/11/11

Musica e memoria nell’era di YouTube


Osservando YouTube da un punto di vista prettamente musicale, sono due gli aspetti che più sorprendono di questo nuovo mezzo di (post-)trasmissione. Il primo è il fatto che YouTube sia diventato una miniera di apparizioni televisive e filmati rarissimi un tempo gelosamente conservati e scambiati dai fan più accaniti. Tramite gli annunci sulle ultime pagine di Goldmine o Record Collector e le comunicazioni via fanzine o posta, i fan barattavano o vendevano le videocassette, copiate e ricopiate tante volte che l’immagine di Elvis o Bowie era ormai così distorta da essere quasi irriconoscibile. Oggi è tutto su YouTube, a disposizione gratuita di chi abbia voglia di cliccare.
Se penso a quanto mi sarebbe tornato utile mentre scrivevo Post-punk 1978-1984 (terminato circa diciotto mesi prima del lancio di YouTube, nell’inverno del 2005), le emozioni sono contrastanti: una frustrazione retrospettiva bilanciata da uno strano senso di sollievo. Sarebbe stata una risorsa eccezionale, ma con quanta facilità avrei potuto perdermi negli innumerevoli clip dal vivo, nei vecchi video e negli spezzoni televisivi.
L’altra evoluzione davvero interessante nell’ottica musicale è il modo in cui i fan hanno trasformato ampie regioni di questo videoarchivio in un semplice catalogo di documenti audio, caricando brani accompagnati da figure astratte in movimento stile screen-saver o immagini fisse (in molti casi una semplice istantanea della copertina del disco o dell’etichetta, oppure una ripresa sgranata del disco che gira sul piatto). Interi album vengono messi su YouTube, con la stessa immagine generica e casuale a fare da sfondo a tutte le canzoni. La combinazione di video musicali e file audio ha fatto di YouTube una biblioteca pubblica del suono registrato (per quanto disorganizzata e caotica, con poche lacune ma piena di ripetizioni e «copie danneggiate»). Si può persino «prendere in prestito» senza restituire, utilizzando programmi come Dirpy per convertire i video in mp3.
YouTube è molto più facile da consultare della mia enorme e disordinata collezione di dischi. Mi è addirittura capitato di scaricare dal web album che avevo già per evitare la fatica di mettermi a cercare negli scatoloni. E chi se ne importa se la qualità sonora del cd e del vinile è decisamente superiore: chi ha fretta si accontenta dell’mp3 (nel mio caso di solito ho bisogno di controllare qualche dettaglio specifico, di fatto trattando la musica come banca dati e non più come esperienza sonora coinvolgente). Lo stesso YouTube è un esempio di questo genere di compromesso tra qualità e convenienza, tipico della cultura digitale. «La qualità audio-video è pessima» osserva Hilderbrand, sottolineando come la definizione che appare tollerabile nella piccola finestra riveli tutta la pochezza della bassa risoluzione in modalità «schermo». Ma proprio come gli ascoltatori hanno accettato il sound esile e «inferiore» dell’mp3 grazie alla compattezza e alla facilità di scambio, nessuno sembra preoccuparsi della fedeltà ridotta della visione via computer (per giunta proprio mentre la tecnologia si muove in direzione contraria con la tv in alta definizione, gli impianti home-theatre in surround 5.0, i film in 3D e via dicendo).
In compenso, l’archivio online ci offre una possibilità d’accesso, un volume e una varietà ampiamente superiori in termini di quantità, se non di qualità. Abbiamo inoltre a disposizione il controllo della durata sotto il video, il che ci consente di trascinare rapidamente la barra di scorrimento fino al momento chiave del filmato (o della canzone). YouTube è un contenitore di stralci fondato sulla frammentazione di narrazioni più lunghe (il programma, il film, l’album), ma questa funzione ci incoraggia, in quanto spettatori, a scindere gli spezzoni culturali in unità ancora più piccole, erodendo insidiosamente la nostra capacità di concentrazione e la nostra volontà di lasciare che le esperienze si dischiudano. Ma è internet in quanto tale a rendere più fragile e incostante il nostro senso della temporalità: piluccando i dati senza posa, saltelliamo nervosamente qui e là in cerca del prossimo zuccherino istantaneo. YouTube incoraggia questa deriva per mezzo della barra laterale, l’elenco dei video ritenuti – spesso in virtù di una logica contorta – affini a quello che stiamo guardando. È difficile non cedere a una modalità di osservazione distratta e distaccata, a metà tra il navigare e lo zapping (se non fosse che il canale è sempre lo stesso, YouTube, ormai diventato una regione dell’impero di Google, che lo acquistò nell’ottobre 2006). Questa fuga a zigzag non collega solo un artista all’altro e un genere all’altro, ma è anche un viaggio nel tempo: i video- prodotti delle varie epoche sono mescolati indiscriminatamente e inseriti in un reticolo di link incrociati.

Simon Reynolds, Retromania, p. 89-91